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  Val di Mello - Terra di Mezzo


Era tardi, quando attaccammo l'ultima parete d'un "Roc" che non ne voleva sapere di finire e frapponeva la Val di Mello al meritato sonno senza sogni che attende sul guanciale chi è stanco morto, gli occhi di piombo, la voce spezzata come se avesse giocato alla morra

per tutta la notte.

Così non ce l'avrei fatta a riprendere la mia voce da divulgatore in falsetto e intonare: «La Val di Mello, felice terra di mezzo, è popolata da un pantheon di arrampicatori che di volta in volta si riconoscono nel rischio, nel Gigiat, nello spit, in Okosa, nel vino, nel denaro e nel dappertutto quotidiano esattamente come coloro che mai hanno visto la Val di Mello».

Secondo tentativo. "Vidi Boscacci, scuro" in volto: pensava che fosse stato Merizzi a rompergli uno spit...». No, basta, anche "Novella 8000 " non vende più".

Ero stato bene in Val di Mello, avevo arrampicato oltre i miei limiti e bevuto fino a cadere due volte nel fiume, all'andata e al ritorno da un fuoco che prometteva fumo. Mi spiaceva di non esserci andato negli anni d'oro, perché Ivan Guerini m 'aveva terrorizzato con le sue teorie

per cui dovevo arrampicare slegato e, se mi fossi messo a tremare, lui m'avrebbe tranquillizzato parlandomi. Ero contento d'esserci arrivato, meglio tardi che mai, difficilmente mi sarei lasciato scappare un

anno senza almeno una capotino a Mello. Ma a quel punto importava solo il fatto che stessi per finire "Roc", che davanti a me ci fossero grandi personaggi, che ciascuno di loro avrebbe preso la parola e detto la sua sulla valle e sull'arrampicata. Mi dispiaceva soltanto di non aver avuto la fede, o la fortuna, di veder arrampicare Paolo Cucchi, ma anche incrociarsi al bar era stato simpatico.

Il passaggio "più difficile d'Italia", l'8c del Sasso Remenno, me l'ero perso, e con lui Pigoni. Avevo più voglia di pareti che di palestre, in quei giorni. Altri monumenti della Val di Mello, come Boscacci e Popi

Miotti, molto avevano già scritto di per loro, ma ugualmente avrei voluto portarli nel serraglio di "Roc", troppo stretto per abbracciare quel mondo felice.

Comunque finché c'è inchiostro, c'è speranza. Arrivederci e grazie a Fabio Salini che m'ha scorrazzato a suonare la grande tromba del Precipizio degli Asteroidi. Al suo suono hanno rimbombato per la valle mille echi diversi: così, infatti, sono le opinioni che lassù s'inseguono.

La Val di Mello, non appena se ne sa qualcosa, suscita immediatamente immagine di un luogo diverso. Per alcuni è una realtà di cui hanno sentito parlare e che incuriosisce come un Gigiat, un incontro che si può rimandare a lungo, continuando a sopravvivere.

Per i bibliofili la Val di Mello è lontana nella storia, la immaginano come un Caporal della Valle dell’Orco dalle difficoltà anacronistiche e le vie

desuete. Per gli elegantoni è un marchio di fabbrica fortunato che evoca paradossi di farfalle e pareti nord, belle ragazze e scanzonati paladini. Per chi si diletta di tastiere e fotografie è un pozzo di fatti

simpatici da raccontare e volti che attirano l’occhio su qualunque rivista, perché hanno qualcosa d'impalpabilmente interessante, e vi si attinge quando si rimpiange la storia, perché la geografia rocciosa s'è fatta prepotentemente noiosa anche per chi l’ ha voluta, essenziale, numeri e abc. Per i viandanti della verticale, per i raminghi che non sanno dare un nome a quel che gli manca nella vita sino al giorno che son soli in testa alla cordata, la Val di Mello è un'oasi che non si altera, felice terra di mezzo tra le montagne severe e la plastica, covo di beoni e gaudenti, grande quadro su cui poter pennellare ancora il proprio genio creativo. E il bello è che non ce ne sono due a pensarla allo stesso modo.

Gli spagnoli

«Un cacciatore bresciano abituato a scovare un passero ogni 10 ettari di terreno lasciato libero, in un parco del Kenya, troverà senz'altro esagerata la locale densità di animali, e, avendone la possibilità, stenderà subito piani di abbattimento generalizzato.

Non ho ancora avuto il piacere di arrampicare sui graniti di Spagna» dice Jacopo Merizzi, «ma osservando le vie aperte dagli spagnoli, mi viene in mente il cacciatore bresciano in Kenya. Non e'è placca, sasso, roccia insomma, che in sole due campagne estive in Val di Mello gli iberici non abbiano salito. Grazie ad una suola particolarissima e a una straordinaria predisposizione all'arrampicata in aderenza, gli itinerari che hanno aperto sono così difficili e così poco protetti che è come se fossero stati saliti da formiche o lucertole, cioè da esseri d'un altra

specie animale, totalmente indifferente a noi possibili ripetitori... ».

«Al capo opposto ci sono le vie di Paolo Vitali. Percorsi durissimi, tecnicamente perfetti e aperti dal basso che però non potranno diventare mitici Galactica (che sale appena a destra de II Paradiso può attendere, sul Qualido) è dura finche vuoi, ma attrezzata e preparata in modo pignolo; è predisposta per una ripetizione come un piatto precotto, e non può essere alta cucina».

«Trovo molto più ammiccante, sempre sul Qualido, venti metri più a sinistra, Melodramma di Covelli e Spatola (Spatola, il più grande spatolatore di copperheads). Ci hanno messo anni per aprire quella via con ogni sorta di follie.

Forse nessuno li conosce forse, ma sono destinati al mito, perché la loro via è l’unica che gli spagnoli (Jimeno e Juan Louis Monge) non siano riusciti a ripetere.

Dopo 4 giorni in parete erano riusciti a salire solo 11 tiri!».

Le parole di Jacopo mi evocano i detti del mio antico compare Roberto Bonelli, quando irrideva chi voleva socializzare l'arrampicata, la speleologia. Altroché.

«Bisogna preservare l'élite» diceva.

Anche lui è passato dalla Val di Mello.

Lo rivedo in foto su Patabanga, una via di quarto e quinto, uno dei fiori più belli della valle che solo pochissimi hanno raccolto. E non per spirito ecologico: la via è ancora lì, la roccia, non ferita, appare identica a quindici anni fa. Ci sono due tiri con un chiodo tra sosta e sosta e poi 80 metri filati, senza chiodi, senza soste. Un mito di quarto più, insomma.

Col passar dei giorni scopro però in Jacopo un'autentica ammirazione per una via di Paolo Vitali, la bellissima, terribile Vedova Nera, e lì, guarda un po', c'è una fila di spit successivi che la raddrizza, che ne snatura l'acuto emotivo.

Sono spit piantati dall’alto, un via moderna di Boscacci.

Il Boscacci

Antonio Boscacci. gira e rigira, non puoi fare a meno di cadere sulla traccia del "Bosca", il dio corrucciato e contraddittorio, lo spirito dialettico contrapposto ai folletti della natura nel complicato pantheon di taglio induista, o vikingo, che dai suoi primordi ci offre l'arrampicata in Val di Mello.

Se in principium erat Ivan Guerini, il Bosca avocò a sé i sette verbi dell'aderenza e su quella spalmò il suo regno incorruttibile, fatto d'un controllo mentale che noi manco sospettiamo, di cui cominciamo ad intuire i prodigi la prima volta che lasciamo la valle dopo un giorno di placche con i muscoli belli elastici e la testa che fuma, la testa che vuole un giornaletto, che cerca un televisore per annegarci dentro, che non ce la fa più a stare attenta.

Molti scalpi di miti pendono alla cintura del Bosca, ma Okosa è la testa più orrenda, i suoi quindici metri di passaggio chiave improteggibili aperti dal basso (e due sole volte dal basso ripetuti) sono suoi

testimoni, come le Colonne d'Ercole raccontano che Ulisse non le degnò d'uno sguardo e andò oltre.

Ma lasciamo Jacopo domandare al cielo perché il suo vecchio amico spitti dall’alto. E andiamo nel mondo iberico a sentire la voce José Jimeno che conobbe il Bosca e, raggiunta la valle, non solo ne

abbattè stupendi trofei (Nada por Nada, Brutamato, Yè yè...) in compagnia dei migliori Melatti, ma seppe portarne la scintilla nella terra di Don Chisciotte.

Sentiamo, tradotto, ciò che dice in poche parole su quel mondo che non è sorretto dai muscoli d'Atlante, bensì si sostiene sull’abisso in punta di piedi.

«Come conobbi Boscacci?

Arrampicando allo Yelmo vedemmo alcuni italiani sulla Siroco. Avevo sempre pensato alla Pedriza come a una scuola pericolosa, con pochi chiodi di sicura, e quella gente là stava saltando su una delle vie più difficili. Fu lui a parlarmi per la prima volta della Val di Mello».

José Jimeno - Risposte celebri a domande idiote

Difficoltà realizzate a vista?

«Fin dove ci vedo, sono un po' miope».

Grado massimo incatenato?

«Incatenato alle mani o ai piedi?»

Meglio 1000 metri di 6c o un blocco di dieci da 8a?

«Duemila metri di quinto e sesto».

Cosa pensi dell’Anonima Spacca Spit?

La gente ti accusa di farne parte...

«Uff!, domanda difficile. Il fatto è che, pur non togliendo nulla io, personalmente appoggio chi lo fa perché così si evita d'arrivare allo sfacelo. Se qualcuno spitta dove non deve, gli si può parlare e dirglielo; se però continua, è possibile che vengano gli scalatori della notte e agiscano.

Non so chi siano, perché non assomigliano a ciò che sono,

ne sembrano tanti quanti sono.

Io per principio non toglierei quello che un altro ha piazzato.

O forse sì».

La tua principale qualità come scalatore?

«Voler conoscere i miei limiti».

E il tuo difettino inconfessabile?

«D'essere molto limitato e... (raccoglie il berretto dal suolo, caduto per il troppo pensare)».

Come ti alleni?

«Cerco di stare il più possibile lontano da Madrid».

Perché hai rifiutato le offerte di sponsorizzazione che ti hanno fatto alcune case produttrici straniere?

«Il problema dei "patrocinatori" è che precisano

il tempo e I’impegno. E poi burocrazia, fogli, foto

domandare...».

Che bevi?

«Vino.»

Dopine «Vino».

Droghe?

«Caffè, vino».

Che pensa uno scalatore come tè quando lo intervistano?

«Me arremango los pantalones y me afuso la boina» (mi tiro su i pantaloni e mi rimetto il berretto).

Josè Jimeno - Pensieri d’arrampicata

Perché solitarie integrali?

«Sono qualcosa di simile alle aperture dal basso, però più divertenti perché le sensazioni sono più forti. E, anche da un punto di vista pratico, si possono scalare molte più vie, molto più rapidamente, senza ne assicurare ne aspettare il compagno. Il problema è che si tratta di una cosa che ti prende per davvero, e può ben venire il momento che fai un errore».

Ma non ti preoccupa l’esempio che dai alla gente che inizia, ai ragazzi che, motivati da tè, possono cominciare a fare le stesse cose?

«No, assolutamente, perché se qualcuno può essere influenzato, nessuno sarà comunque obbligato, e se lo fa è perché gli piace. Potrebbe capitare a uno che abbia provato ad aprire dal basso e abbia

apprezzato la differenza con l’aprire dall’alto. E poi mi piacerebbe che un po' di gente si animasse, così sì aprirebbero più vie avventurose e potrei ripeterle, perché non credere che ce ne siano molte».

Ma tu come hai pensato di aprir vie dal basso?

«Al ritorno dal mio primo viaggio in Val di Mello.

Avevo 19 anni e, anche se avevo già aperto qualcosetta dal basso, lo avevo fatto senza motivi speciali, per far qualcosa di diverso o anche perché era difficile.

Durante quel viaggio ebbi l'occasione di parlare con Tarcisio Fazzini, Luisa Angelici, Antonio Boscacci, Rampikino (ora "Rampikone ").

L'idea in quella valle era di salire dove si poteva utilizzando il minimo numero di chiodi di sicurezza possibile, così non da sfigurare la roccia. C'era molta più avventura perché non sapevi mai cosa andavi ad incontrare. Inoltre guardavi la parete e ci trovavi al massimo uno o due spit. Ero in una situazione particolare, e tutte quelle cose hanno finito per conquistarmi. In questo tipo di vie ci sono volte in cui non vedi neppure la sosta e devi intuire la via di salita facendo grandi "S" sul tuo cammino in aderenza sulle placche.

Oltre all’importanza di lasciare il mezzo roccioso così come l'hai trovato, è il fatto che questo modo è molto più divertente, e non conta tanto la forma fisica quanto piuttosto quella psichica.

Varie volte, dopo una di queste scalate, invece di sentire male ai muscoli e con la testa che duole, tè ne stai tutta la sera come un flan (budino)».

Ma davvero ci si diverte durante queste aperture?

«Bisogna cominciare aprendo vie più facili del livello di difficoltà che padroneggi davvero. Perché in certi casi non sai proprio come fermarti per mettere una sicurezza, ti manca la tecnica e vieni sopraffatto dalla paura. Però col tempo la testa si abitua e arriva il momento in cui su queste vie non si patisce per nulla.

Allora cominci ad aprire su difficoltà maggiori.

Necessiti di sensazioni più forti, e più il tuo livello fisico si avvicina a quello psicologico, più ti godi l'itinerario, perché stai arrampicando con poche sicurezze al limite delle tue capacità.

Non sai se vai a cadere oppure no.

Il dubbio s'aggira sempre nell'ambiente. Questa è un'altra cosa che mi piace: lì non e 'è possibilità d'errore, uno sbaglio equivale a un incidente e devi stare attento a non lasciati andare, troppo.

Ma come vedi si tratta di un processo evolutivo: anni fa non avrei programmato l'apertura di vie come Bruiamolo o Escornamientos sul Yelmo».

Allenamento psicologico?

«Sì. Cerco d'imparare a non pensare, a mantenere la mente vuota.

E difficile, però, quando sei su una via estrema e arrivi a un punto in cui non sai più cosa inventare, devi bloccare la mente.

E una situazione che capisci solo a quel punto.

Non la so spiegare molto bene, però puoi pensare che ti dai un bei colpo. Cosi pure è bene provare a controllare i sogni, essere padrone della situazione nei sogni in modo simile a come lo sei quando arrampichi.

Può sembrare impossibile e che vi stia prendendo in giro, e invece si può, a poco a poco. Una notte provateci».

Quando apri una via dall’alto sei solito sistemare i chiodi molto vicini. Perché lo fai? Che sensazioni provi a chiodare calandoti?

«Anni fa mi calavo dall'alto e piazzavo i chiodi lontani.

Ora però mi calo da sopra solo se sto male (dopo una frattura, in seguito a lesioni).

Ebbene, mentre provo i passaggi per collocare le sicurezze di cui necessito, mi sento giocare in vantaggio con chi verrà a ripeterla.

Se costui cadesse, mi sentirei responsabile, e se ci fosse un incidente l'avrei sulla coscienza.

Lui ha giocato pulito, però tu invece hai chiodato male permetterlo in difficoltà.

Dal basso invece capita l'opposto.

M'assicuro lungo la via alla buona, come posso, e corro rischi uguali se non peggiori di chi verrà a ripetere, per cui non ho responsabilità inferiori in caso di incidenti successivi».

 

Nota: José Jimeno (Josecho), 23 anni, vive cucendo tende e

accessori per l'arrampicata. Con Jesus Galvez, ha formato la

più forte cordata che mai abbia aderito alle placche granitiche

della Pedriza del Manzanarre, la selettiva palestra dei madrileni.

Viaggiatore amante della libertà, José ha aperto vie di altissima difficoltà in aderenza, sempre dal basso e con scarse

protezioni, in Spagna Norvegia, India, Giordania e naturalmente Italia (Val di Mello e Pizzo Badile).

 

Andrea Gobetti



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1 Inserito Venerdi 18 Giugno 2010 alle 09:59 da Giuseppina
 
E' un vero peccato che l'Antro di Gobetti non sia più abitato da lungo tempo. Per fortuna che l'inquilino ci ha lasciato sul tavolo questi racconti per non dimenticarci di lui.
Come potremmo farlo d'altra parte? E' un vero piacere leggere questa chicca ed altre ancora; personalmente mi danno la sensazione di essere trasportata in un altro mondo mentre le parole fluiscono nell'anima come l'acqua che disseta la terra e creano contemporaneamente immagini chiare e vivide dove io sono nel mezzo e da dove, però, non vorrei uscirne.

Invece lui è uscito da questa grotta per desiderio di luce, probabilmente, e non è ancora rientrato mentre io mi sento spingere con forza ad entrarvi per poter provare e condividere con lui le sensazioni e le emozioni che quel medesimo ambiente gli ha permesso di portare a galla nel silenzio.

C'è tanto silenzio in grotta e tanto buio ma se il primo è amico il secondo mi spaventa.

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