Il paradiso puo' attendere il Bosca
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Posted by BOSCA on Friday, December 5, 2008 at 03:50 PM
Pareti grandi grandi avventure: sull'epica salita del "Paradiso può attendere" al Qualido, non poteva mancare anche la testimonianza di Antonio Boscacci mirabilmente illustrato da Claudio Raboni; racconto che si specchia alla mitica testimonianza di Masescu.
Questo brano uscirà presto con la nuova Guida della Val di Mello di Andrea Gaddi.
SULL’AVVENTURA CAPITATA A TRE OMARINI, QUANDO L’OLIFANTE RISUONÒ SULLE ALTURE DEL QUALIDO
I PREPARATIVI
Tutto cominciò con la divisione del vino.
- Mica dovremo portarci dietro tutto quel vino?
Chiesi con un certo nervosismo, misto a un po’ di impazienza e di feroce rimprovero.
- E’ stato tutto previsto.
Ribatté uno dei due indaffarati miei compagni.
- 10 litri sono il minimo possibile, essendo noi in tre.
- Come in tre?
Osai obbiettare, trattenendo a stento un moto d’ira.
- Siamo o non siamo in tre?
Disse il più giovane dei due.
- E 10 diviso tre non fa proprio 3,333 con il tre periodico?
Aggiunse con una punta di fastidiosissima spocchia.
A quei tempi aveva intenzione ancora di iscriversi all’università, e questo, secondo lui, era un tentativo di darmi una lezione. Visto che ero laureato in matematica e la faccenda del tre periodico non era certo cosa nuova per me.
Voleva farsi bello con quell’affermazione, ma io sapevo che era chiaramente il suo solito modo di ingarbugliare il discorso per dimostrarmi che, come al solito, non aveva ragione.
Quando ricorreva a quei trucchi, era come sbattermi in faccia che aveva torto.
Almeno io così allora leggevo le cose.
- E’ vera la storia del 3,333 con il tre periodico per ciascuno di noi.
Dissi io.
- Ma vorrei farvi notare (passai dal tu al voi perché mi volevo rivolgere a tutti e due, sia al gatto che alla volpe e poi volevo dare più solennità al mio dire), che io non bevo vino, sono astemio, quindi la vostra divisione, non dà 3,333 con il tre periodico, ma un rotondo, scintillante e autonomo 5.
- Per farla breve, ribattei, con un certo astio, io il vostro vino non voglio portarlo e non ve lo porto.
- Ma guarda che nessuno di noi due ha mai assolutamente coltivato l’idea di farti portare alcunché di liquido e afrodisiaco. Questo è compito nostro e, nemmeno come pensiero di ripiego, abbiamo avuto in mente di farti contribuire al trasporto dell’ambrosia.
- Meno male.
Risposi caustico e al contempo, devo dire, soddisfatto.
Sul piazzale del Gatto Rosso, comparvero allora, prelevate dal bagagliaio della due cavalli, quattro piccole taniche di plastica, ciascuna contenente due litri e mezzo di vino.
Poi, ma solo dopo, apparve il resto.
Scatole di pâté de fois gras, di ostriche, due tubetti di tonno, uno alle olive e una in salsa rossa, forse pomodoro e peperoncino, due tubetti di maionese e infine due scatolette di legno avvolte con cura in una carta trasparente.
- Ma ci dobbiamo portare anche il legno?
Cercai di protestare, ma con tale timidezza, che la mia domanda-rimprovero non venne neppure presa in considerazione.
Con l’aria infastidita del bramino che invita il paria a lucidargli meglio le scarpe, mi fu risposto che, mantenuto nella sua confezione originale, il caviale non avrebbe perso neppure una briciola del suo aroma e del suo gusto.
Solo quando tutto il cibo fu prelevato dalla due cavalli e steso accanto all’auto, mi resi conto che la richiesta tassativa che i miei due amici avevano avanzato fin dall’inizio dell’impresa, di essere loro ad occuparsi delle scorte alimentari, era frutto di un piano segreto.
Un ben congeniato dispositivo che aveva come unico scopo quello di nascondere la deliberata e inconfessabile volontà di tenermi all’oscuro dei preparativi e fare in modo che io non potessi neppure indirettamente interferire nelle loro scelte.
Tutta la storia dell’alpinismo della val Masino, dell’alpinismo valtellinese e, in particolare quella di tutti gli alpinisti che avevo conosciuto, sui libri o di persona, fu in un attimo spazzata via.
Dove erano le salsicce, i salami, la pancetta, il pane secco e tutti gli ammennicoli mangiarecci dei quali erano piene le storie di montagna e di conquista?
Dov’era la guida alpina che divideva con il cliente l’ultimo tozzo di pane, sbriciolato e conservato nella capiente tasca dei calzoni alla zuava?
Dov’era il microscopico pezzetto di salsiccia che, dopo essere stato diviso in tre parti, pelle compresa aveva portato alla vittoria sulla famosa via del versante sud del paretone di Zocca.
E la via dei Ragni di Lecco percorsa l’ultimo giorno con un quadretto di cioccolato che si era sciolto in tasca, raschiato e diviso come una leccornia?
E la via degli svizzeri sulla quale era finita l’acqua già il secondo giorno e per tutto il terzo non avevano bevuto nulla, a parte leccare la roccia umida accanto ad un nido di gracchi? [In verità, la leggenda, ormai disarticolata da mille e mille racconti, diceva che erano state proprio due uova di gracco alpino, trovate nel nido, a permettere agli svizzeri, Hans Pursheller e Gratz Messmer di portare a termine la loro intrepida prova sulle piodesse della punta Rasica].
Noi non avevamo neppure una salsiccia, non un salame, nemmeno un pezzo di pancetta!
Quando feci notare questo piccolo particolare, mi fu risposto che se avessi guardato meglio, mi sarei accorto che accanto ai vasetti dei sottaceti, tra le ostriche e la bottiglia di champagne, che non poteva mancare, in caso di riuscita dell’impresa, c’era un pezzetto di lardo.
- Ah, meno male, dissi, qualcosa che mi ricorda del buon vecchio modo di andare in montagna.
Almeno di questo mio padre sarebbe stato fiero.
Il lardo del suo maiale, che allevava personalmente e al quale ogni anno attribuiva un nome diverso, come agli uragani del golfo del Messico, era uno dei componenti la sua dieta. E in montagna non mancava mai.
Dove c’era mio padre, c’era il suo lardo.
Anzi, una volta riconobbi che in un rifugio c’era mio padre dal fatto che sul tavolo si trovava un pezzo del suo lardo.
Non sapevo che fosse lì.
Il lardo di mio padre non tradiva mai.
- Abbiamo voluto conservare il lardo, perché il lardo è come la donna.
E giù a spiegarmi l’analogia tra il lardo e le donne, con particolari così piccanti e un tantino volgari che non mi pare il caso di raccontarli. Né, al tempo stesso, avrei voglia di esaminare le non insignificanti turbe psicologiche dei miei due amici riguardo a questo argomento, per loro comunque di grandissimo valore escatologico.
In ogni caso, con quel pezzetto di lardo di Colonnata, la storia dell’alpinismo era salva.
Per farla breve, preparammo tutto l’occorrente mangiatico e il beveraggio e, solo successivamente passammo in rassegna il materiale alpinistico.
Indaffarati e prontissimi nell’esaminare ogni sorta di leccornia da loro preparata, mi parvero del tutto indifferenti al materiale alpinistico, del quale io ero il responsabile.
- Di certo avrai fatto un’ottima scelta.
Con questa lapidaria frase, per la quale fu impiegato il tempo di un battito d’ali, l’esame del materiale terminò.
Iniziammo a infilare il tutto negli zaini.
E qui, ad ogni vasetto che entrava nel sacco dell’uno o dell’altro, c’era un moto di sorpresa.
Una specie di gratitudine che ognuno aveva per l’altro.
- Bella scelta, queste acciughe arrotolate con i capperi, Pilly.
- Ottima questa crema di camembert, Jacopo.
Alla fine di questo incredibile balletto, ricco di mezze frasi, autentiche sorprese e sguardi pieni di ammirazione per quelle scelte, per altro fatte insieme, i miei due amici si alzarono e, dopo essersi inchinati, si strinsero la mano.
- Buon lavoro, disse Pilly.
- Ottime scelte, ribatté Jacopo.
Il balletto durò alcuni minuti poi, finalmente, si passò a mettere nei sacchi il materiale di arrampicata.
Un’ora dopo il nostro arrivo al Gatto Rosso, tutto era pronto per la partenza.
Allineate accanto alla due cavalli c’erano le quattro tanichette di vino, tre grossi zaini e un enorme sacco.
- Il vino lo portiamo noi come deciso e come è giusto, ma tu dovrai portare il saccone del materiale.
In fondo, me lo ero meritato.
LA MICETTA
Percorremmo la mulattiera accanto al torrente.
Davanti c’erano Pilly e Jacopo che chiacchieravano.
Di solito, quando chiacchieravano così beatamente, o stavano parlando di donne oppure di cibo.
Che per loro in fondo era sempre stata un po’ la stessa cosa.
Ricordo che un giorno che ce ne stavamo seduti sul grande sasso piatto del Bidé della Contessa, con le gambe a penzoloni nel torrente, iniziammo una discussione sul film di Bertolucci.
- Che raffinatezza. Disse Pilly.
- Forse, invece del burro, si sarebbe potuto provare con una mousse di cioccolato. Una sdilinquitudine.
Poi Jacopo aggiunse:
- Quando la micetta è bagnata, aprire l’ombrello con prontezza e nello stesso tempo con armoniosa delicatezza.
Dio, quanto mi piacque quell’aggettivo, che aggiungendosi alla già insita armoniosità della delicatezza, la rafforzava al sommo grado.
Era, in fondo, come una bellissima sottoveste di organza. Ma no, forse dovrei dire una sottoveste di zucchero filato.
Allora dissi una di quelle frasi che non si dovrebbero mai dire, perché poi diventano patrimonio del luogo nel quale vengono dette e, da quel momento, ogni volta che vi capiterà di passare di lì, non potrete fare a meno di pensare a quelle parole.
Beh, per farla breve, dissi:
- Quando il gatto si avvicina alla micetta, c’è da augurarsi che lei non morda.
- Bravo, Bosca, finalmente sei dei nostri.
Risposero insieme Jacopo e Pilly.
Poi, scattando in piedi, mi tesero la mano e mi fecero un inchino.
Era il loro modo di manifestarmi la loro assoluta, incondizionata simpatia.
La solennità del momento non mi fece comunque perdere il suo lato buffo.
Nudi come lombrichi, Jacopo e Pilly, si girarono verso il sentiero e, rivolgendosi a Monica e Giulia, che proprio in quel momento stavano passando, esclamarono:
- Orsù, damigelle, perché non vi degnate di bagnate la vostra micetta nelle calde acque di questo nostro torrentello?
Ma loro, vergognosette, dopo aver emesso un lungo e prolungato lamento, se ne andarono per la loro strada.
ANDAVO SU CHE PAREVO UN MULO
Quando a Ca’ di Carna prendemmo il sentiero che saliva verso la valle del Qualido, ero già tutto sudato.
Mi fermai un momento, appoggiandomi a un sasso e proprio allora i due cessarono di chiacchierare, si girarono e vedendomi, come dire, un po’ affaticato, mi dissero di non preoccuparmi, che mi avrebbero dato il cambio presto nel trasporto del saccone.
Quando ripresi il cammino e passammo dalle parti di Nuova Dimensione, pensai che forse avremmo dovuto affittare un animale.
Andavo su che parevo un mulo con quel maledetto saccone di traverso che mi faceva venire il torcicollo.
Oltre tutto c’erano due friends che sbucavano di lato e mi colpivano un orecchio in una maniera davvero insopportabile.
Per non parlare del chiodo che mi si stava conficcando nel deltoide e di quel nut che mi comprimeva la clavicola e che non riuscivo a spostare nonostante i continui e numerosi tentativi di levarmelo di torno.
Quando finalmente raggiunsi i due, fermi all’inizio della scala della Moia, la prima cosa che mi sentii dire fu:
- Guarda come è sudato il Bosca. Forse avremmo dovuto prendere il mulo del melàt e farci trasportare da lui gli zaini e il saccone.
- Pensa un po’ Jacopo, disse con un gran sorriso Pilly, pensa un po’ se avessimo preso un mulo invece del Bosca; avremmo potuto portarci anche un contenitore per il ghiaccio.
- Due flûte à champagne, qualche cubetto di ghiaccio e questo praticello sarebbe diventato l’atrio del Paradiso.
- Enchanté.
Risposi e, per essere più persuasivo, emisi un lungo raglio. Un raglio di mulo affaticato, come il luogo e gli amici mi ispirarono.
LA CAVERNA DI POLIFEMO
Con quel procedere fatto di chiacchiericci e lunghe soste, erano quasi le otto di sera quando arrivammo all’antro scelto per passare la notte.
Il sole, dopo aver disperso i suoi raggi sulle rocce della costiera che separa la val Qualido dalla valle di Zocca, si era ritirato in buon ordine anche dal fondovalle.
Di fronte a noi si ergeva una nuda, liscia, compatta, immensamente alta parete verticale.
- E’ là che dovremmo cercare la nostra via.
Disse Jacopo, additandomi uno strano pilastro dentellato, sormontato da numerosi tetti.
- Se riusciamo a destreggiarci tra quella serie di aggettanti e robuste asperità, forse troveremo il modo per salire anche quel nulla che troneggia al centro.
- Là dove c’è quel corvo, dovremmo trovare un passaggio. Altrimenti pendoliamo sulla destra e voilà, riprendiamo da quella lunga fessura verticale.
Aggiunse il Pilly, mostrandomi una foto.
Aveva, a suo dire, studiato la parete attentamente su quella immagine 10x15.
Mi parve inopportuno chiedergli se tutto lo studio che aveva fatto si fosse limitato ad un esame quell’immagine un po’ sbiadita e per giunta leggermente sfocata ai bordi, perché capii subito che quella era la sola immagine che avevamo a disposizione.
Lasciando gli zaini fuori, ci infilammo dentro la piccola grotta.
Nell’equilibrio combinato di tre grossi massi, sui quali si era assestata nel tempo una discreta quantità di terra e di erbe, era nata la nostra dimora.
Una specie di dépendance della grotta di Polifemo.
Era piccola e graziosa come si ritiene debba essere una dépendance e probabilmente un tempo era stata anche munita di porta, della quale però ormai non c’era più traccia.
Sulla destra entrando, c’erano due piccoli giacigli con del fieno e, a sinistra, sotto lo sporgere di una roccia, ce n’era un terzo.
Una minuscolo apertura faceva da finestra e da camino.
Fu una cena indimenticabile.
Affacciati ad osservare il fondo della val di Mello, con la parete del Qualido che diventava sempre più alta e più nera, dopo aver cosparso un certo numero di biscotti alla cioccolata con una spruzzata di panna montata, osservammo il lento nascere della notte.
Migliaia di stelle ronzavano sopra di noi nello scampolo di cielo che le robuste pareti di quella valle permettevano.
Tutto pareva fatto per elevare i nostri spiriti e trasportare le nostre menti verso i beati pascoli di Manitou.
- Ti sei dimenticato la musica.
Disse Pilly.
- Non mi sono dimenticato di nulla, perché eri tu che avresti dovuto occupartene.
Rispose Jacopo.
- E non addossare agli altri le tue responsabilità e le tue dimenticanze.
Questa scenetta si svolse mentre una stella cadente attraversò il cielo dalle parti della cima d’Arcanzo e non lontano dalla luminosa Aldebaran.
Mettemmo in un sacchetto gli avanzi della cena e ci infilammo un golf.
La rugiada stava scendendo lungo la val Qualido ed era ora di ritirarsi al coperto.
Il mio piccolo Casio, adatto a resistere fino a cinquanta metri sott’acqua, segnava la mezzanotte.
- Cari colleghi, dissi con tono solenne, come si conviene alla vigilia di un importante avvenimento, cari colleghi, è bene che ce ne andiamo a letto, perché tra un po’ Polifemo passerà a contare le pecore, anche quelle della dépendance.
Prima però ci mettemmo in posizione e via ...
- Chi non piscia in compagnia, urlammo all’unisono, ... con tutto il resto che segue.
IL RUGGITO DEL MELONE
“Non starò qui a raccontarvi della salita che noi compiemmo, né delle difficoltà che superammo”, così scrisse il barone Cesati quando, nel 1872, raggiunse con la comitiva della sezione Valtellinese del Club Alpino Italiano le baite del Publino, “nei regni dell’aquila e dell’Orso”. Poi però, dimenticandosi di questa avvertenza iniziale, scrisse una relazione di 28 pagine su quella salita che terminò con “l’agognata conquista della sommità del Corno Stella a oltre 2600 m di quota sul livello del mare”.
Io più semplicemente mi limiterò a dire che impiegammo tre giorni per salire la nostra via;
che trovammo alquante difficoltà, delle quali non vi parlerò per non annoiarvi;
che fummo bersagliati da due temporali e da una grandinata;
che i miei amici usarono con parsimonia il vino, così che questo terminò contemporaneamente all’ultimo tiro della via;
che dovemmo fare un pendolo di quasi 40 metri e che per l’ultimo fu un bel problema;
che ...
Vi risparmio tutte le noiosissime notizie sui materiali impiegati e sul cibo consumato, su quella volta che caddi e sulle mille che fui lì lì per cadere, sulla suola che mi si staccò e che dovetti legare con lo spago.
Sull’alberello di Rosa canina al quale ci appendemmo in tre e sul camoscio che dall’alto per ben due ore ci osservò salire, facendoci dei sorrisetti così particolari che era evidente che ci stava prendendo in giro.
ERMINIA LA DOLCE
Voglio invece raccontarvi quello che successe al secondo bivacco.
Intanto, occorre dire che appendemmo le amache del secondo bivacco sotto una specie di tettuccio. In realtà non era un tetto vero e proprio, ma un modesto risalto, una discontinuità nella lunga parete, sotto la quale eravamo approdati dopo una lunga giornata di placche, fessurucole e lame (sottili e delicatissime le une, robuste e imponenti le altre).
In ogni caso decidemmo che quello era il posto per la notte e, con garbo, cautela, ma anche con la necessaria energia, approntammo il bivacco.
In alto abitava il Pilly, poi veniva lo Jacopo e, in basso, al di sotto dei due e un po’ di traverso rispetto a loro, c’era la mia dimora.
Con quasi mille metri di parete sotto il culo, avevamo cercato di fare le cose per bene e, per essere certi che nessuno di noi scivolasse verso l’abisso, oltre che assicurarci alle nostre amache, ci eravamo assicurati anche tra di noi.
Se per qualche motivo fossimo precipitati, lo saremmo stati tutti insieme. Come i tre moschettieri quando, rinchiusi nella torre del castello di Rouen, dovendo scappare per andare a salvare il re, saltarono insieme nel fossato sperando che l’acqua fosse sufficientemente alta.
Siccome, a parere dei miei amici, le maggiori difficoltà erano state superate, si decise che era giunto il momento di mangiare le ostriche.
Come voi certo saprete, mangiare delle ostriche seduti ai comodi tavoli di un comodo ristorante, magari con un leggero filo di donzella di fronte, è cosa oltre che piacevole, del tutto semplice; ma mangiare delle ostriche appesi a un chiodo, in una parete verticale, non fu impresa semplicissima.
Risolvemmo la cosa in questo modo.
Ci sedemmo tutti e tre sull’amaca centrale, lasciando le provviste nell’amaca superiore, opportunamente calata fino alla nostra altezza.
Fu un momento davvero emozionante.
Mangiare un’ostrica così, con i piedi nell’abisso, avendo davanti agli occhi i monti e le pareti della val di Mello e, sullo sfondo, trasfigurato da una nebbiolina azzurra che ne accendeva ancor di più la bellezza, il monte Disgrazia, dalle fulgide creste, appena appena imporporate dagli ultimi, fiochi raggi di un sole lontano ...
Un brivido mi corse lungo la schiena mentre a tutti noi si inumidirono gli occhi.
Mangiammo e bevemmo.
Poi quando tutto si assopì e il piacere della notte prese il sopravvento, aiutati anche da una leggera aura che risaliva sonnecchiando la parete, ognuno di noi si ritirò nella sua cuccia.
Il posizionamento del corpo, durante un bivacco in parete, appesi come delicati culatelli, non è impresa facile e richiede un certo tempo.
Trovata la posizione, vagamente fetale, adatta alla bisogna, ci augurammo la buona notte.
Le stelle, in quel cielo limpido e molto fatale, aiutate dal nero che saliva dalla valle e dalle pareti che sembravano rifletterlo verso il cielo, le stelle dicevo, erano così intensamente luminose che parevano caderci addosso.
Le osservai per un lungo tempo poi si mischiarono con i sogni e mi trovai beato nei vasti pascoli del cielo dove anche i muli avevano il loro dignitosissimo posto accanto ai puledri e agli stalloni purosangue.
Non saprei dire che ora fosse quando mi svegliai trafitto da un urlo, all’inizio un po’ annebbiato e poi via via sempre più chiaro.
- Erminia, Erminia la dolce vieni tra le mie braccia, voglio pettinare con cura i tuoi riccioli neri.
Quasi compresso da quel grido, reagii mettendomi a sedere.
Questa fu la scena che il buio della notte e il chiarore delle stelle mi permisero di vedere.
Jacopo se ne stava ritto in piedi sull’amaca, in un equilibrio che avrebbe dovuto essere precario, ma che invece era inspiegabilmente stabile.
- Erminia, Erminia la dolce vieni tra le mie braccia, voglio pettinare con cura i tuoi riccioli neri.
Ripeté per tre o quattro volte questa invocazione, si sedette sull’amaca e poi si infilò nel sacco a pelo.
Dopo qualche secondo stava di nuovo russando, come un caprone del Caucaso.
L’OLIFANTE
Quando, dopo un’ultima placca piacevolmente adagiata, raggiungemmo la cresta e davanti a noi apparve il baratro della val Livincina, erano ormai le due del pomeriggio.
Un pomeriggio assolato e terso come non se ne vedono molti.
Pezzetti di un sole estivo di indicibile piacevolezza, cadevano su quel cacumine assolato quasi fossero giganteschi fiocchi di neve, e noi, al contrario di Hans Castorp, avremmo voluto assolutamente farci ricoprire da quella “cristallometria assolutamente regolare”.
La roccia era tiepida.
Seduti a cavalcioni della cresta, dopo esserci date le opportune pacche sulle spalle, brindammo, io con un ottimo succo di frutta e gli altri con lo champagne, alla nostra nuova via.
Poi ci spostammo in un luogo più appropriato e demmo fondo alle provviste rimaste.
Di tutto il materiale mangiareccio che avevamo trascinato con noi lungo quella infinita parete, rimase mezzo tubetto di pasta d’acciughe.
In quel piccolo giardino di mirtilli, allietati da un debole venticello, sprofondammo in un meritato sonno ristoratore.
E fu proprio allora che, risalendo lungo la val Qualido, o forse lungo la val Livincina, ci raggiunse un cupo e allo stesso tempo fiammeggiante rombo di tuono.
No, non era il segnale di una imminente burrasca, non c’era nube alcuna.
Non era il prodotto di umano respiro.
Solo l’arcangelo Gabriele avrebbe potuto produrre quella meraviglia.
A travolgere le barriere poste tra il cielo e la terra era il suono assoluto dell’Olifante.
Liberatosi dalle catene della storia, risalì fessure e placche, superò precipizi e burroni e stemperandosi appena un poco, ma al contempo adattandosi a tutte quelle infinite pieghe,
liberò la sua furia selvaggia e disperata.
Mi piegai sulle ginocchia e mi alzai.
Poi, aprendo le braccia, mi buttai nell’abisso.
Quando, dopo un tempo che mi parve interminabile, il suono dell’Olifante cessò, mi trovai seduto nel parcheggio del Gatto Rosso, accanto alla due cavalli.
E non ho alcun altro ricordo della discesa dal Qualido.
Anzi, mentre scrivo questa mia modesta chanson de geste, ogni volta che penso a quel suono, al respiro di Orlando che risale quelle valli, quasi fossimo al pirenaico puerto di Ibañeta, beh, lo confesso, gli occhi mi luccicano e mi viene da piangere.
E, quando piango, in genere mi sveglio.
bellissimo. Lunghetto ma interessante.
Finalmente, dopo tanti anni di silenzio si riscopre uno dei più forti climber della mia città! Che poi è uno degli aderenzisti (si dice cosi?) migliori che ci siano se non sbaglio.
Mi sapete dire quando esce la guida nuova?
Speriamo in primavera così posso finalemte andare a scalare con qualcosa di attendibile in mano. Non vedo l'ora di sbattere nel cesso quella guida pietosa del sertori. Ho fatto una decina di vie in valle l'anno scorso e ho trovato errori su almeno sette di queste. Una bella media vero? 27 euro buttati nel vento. Potevo andare alle terme di bormio con quei soldi...erano sicuramente spesi meglio.
Ma secondo voi la farà come la prima? Cioè tiro per tiro e con le foto? Con i raccontini di altri?
Speriamo che ci siano scritte altre chicche così di altri sassisti. E' sempre bello leggere qualche inedito.
buon inverno a tutti
G.